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Ogni anno, a febbraio, due eventi apparentemente lontanissimi tra loro catalizzano l’attenzione di milioni di persone: il Festival di Sanremo e il Super Bowl. Uno, il trionfo della canzone italiana, tra orchestrazioni imponenti e polemiche di rito. L’altro, il gran finale dello sport più americano che ci sia, dove il football si intreccia con l’intrattenimento e le pubblicità diventano piccole opere d’arte. Ma sotto la patina dello spettacolo, entrambi condividono un’anima comune: sono macchine perfette del marketing. Costose, gigantesche, ma capaci di generare ricavi pubblicitari unici, inarrivabili per qualsiasi altro evento televisivo.

La pubblicità come protagonista: quando il marketing incontra il mito

Il Super Bowl, lo sappiamo, è diventato una sorta di festival della pubblicità. Ogni anno, le grandi aziende non solo competono per il miglior spazio, ma creano veri e propri cortometraggi capaci di entrare nella memoria collettiva. Il 2013 fu l’anno in cui Oreo vinse la partita del marketing con un tweet geniale durante il blackout: “You can still dunk in the dark”. Poche parole, una tempistica perfetta e un’interazione istantanea con milioni di spettatori.

Ma non è stato l’unico caso eclatante. Nel 1984, Apple cambiò per sempre la pubblicità con uno spot diretto da Ridley Scott per il lancio del Macintosh: una narrazione distopica che faceva il verso a “1984” di Orwell e prometteva di liberare il mondo dal conformismo.

Nel 2011, Chrysler realizzò uno degli spot più iconici della storia del Super Bowl. Eminem, nato e cresciuto a Detroit, percorre le strade della sua città a bordo di una Chrysler 200, mentre una voce narrante racconta la rinascita di una città simbolo dell’industria americana, colpita dalla crisi ma determinata a rialzarsi. Lo spot culmina con il rapper che entra nel teatro Fox di Detroit, mentre il coro canta “Lose Yourself”. Poi, la frase finale, semplice ma potente: This is the Motor City. And this is what we do. Un manifesto di orgoglio, resilienza e rinascita, che ridefinì non solo il brand, ma l’identità stessa di Detroit agli occhi del mondo.

Dieci anni dopo, nel 2021, FCA decise di riproporre una narrazione simile con Jeep, affidandosi questa volta a Bruce Springsteen. Il messaggio, però, non era più legato alla resilienza di una città, ma all’unità di una nazione divisa. Nel cuore dell’America, in una piccola cappella nel Kansas, Springsteen guida su strade polverose, parlando di riconciliazione e speranza. “There’s a chapel in Kansas standing on the exact center of the lower forty-eight states. It never closes. All are more than welcome to come meet here, in the middle.” Un invito simbolico a superare le divisioni politiche e sociali, riconoscendo l’America non per quello che la separa, ma per quello che la unisce.

Sanremo, dal canto suo, ha una storia più tradizionale con gli spot, ma negli ultimi anni ha vissuto una rivoluzione. Basti pensare alle telepromozioni con Amadeus, che riescono a trasformare un classico “intervallo pubblicitario” in uno sketch dal sapore ironico. Ma i brand hanno imparato a giocare sulle emozioni e sulla connessione con il pubblico. Nel 2022, Netflix lanciò la campagna “Tudum Stories” con un richiamo al celebre suono della piattaforma, mentre Spotify cavalcò l’onda con lo slogan provocatorio “C’è chi ascolta Sanremo e chi mente”.

Anche i social hanno amplificato il potere degli spot sanremesi: nel 2023, il marchio di pasta La Molisana riuscì a far parlare di sé con una pubblicità in cui si raccontava la tradizione della pasta in un modo così evocativo che divenne subito virale. Lo stesso accadde con Lavazza, che negli ultimi anni ha usato Sanremo per posizionarsi come brand che coniuga tradizione e innovazione.

Numeri da capogiro: il costo (e il valore) della visibilità

Parliamo di soldi. Perché dietro ogni secondo di pubblicità, ci sono cifre da capogiro. Nel 2025, uno spot di 30 secondi durante il Super Bowl ha toccato quota 8 milioni di dollari. Una cifra da capogiro, ma giustificata: davanti alla TV ci sono oltre 100 milioni di spettatori, un pubblico globale che vale ogni centesimo speso.

Sanremo non raggiunge quei numeri, ma nel suo microcosmo ha un peso altrettanto impressionante. Uno spot di 15 secondi in prima serata costa tra i 100.000 e i 150.000 euro, mentre una telepromozione da un minuto nella fascia più prestigiosa può superare il milione di euro. Eppure, le aziende continuano a investire. Perché? Perché Sanremo è un evento totalizzante per l’Italia. Per cinque giorni, non si parla d’altro. E ogni inserzione entra, inevitabilmente, nelle conversazioni quotidiane.

Perché solo pochi possono permetterselo (e cosa fanno gli altri)

Questa è la verità: il marketing durante il Super Bowl o Sanremo è roba da giganti. Solo chi ha budget colossali può permettersi di giocare a questi livelli. Ma c’è una lezione fondamentale per tutti: più della spesa conta l’idea. Oreo lo ha dimostrato con un semplice tweet, così come Spotify con una frase che ha saputo cogliere l’attimo giusto.

Per chi non può investire milioni, ci sono alternative. Social media, campagne digitali, influencer marketing: strumenti più accessibili, ma ugualmente potenti. Il segreto? Trovare il proprio “Super Bowl” o “Sanremo” personale. Il contesto giusto, il pubblico giusto, il messaggio giusto. Perché, alla fine, il marketing non è solo questione di soldi. È questione di intuizione, di creatività, di tempismo.

E su questo, c’è ancora molto da imparare dai grandi eventi.

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