Ero al quarto anno di Ingegneria Aerospaziale, un’aula fredda di un dipartimento che odorava di carta, plastica e vecchio legno. Lezione di Meccanica del Volo. Un nome pesante come il ferro eppure, per qualche assurda ragione, capace di evocare il brivido leggero degli aerei che fendono l’aria con la naturalezza di una poesia ben riuscita. Il professore – uno di quelli che sembravano non accorgersi della barriera invisibile tra la loro testa e il resto del mondo – si muoveva davanti alla lavagna con una gestualità spezzata, nervosa. Ogni tanto si fermava, fissava il vuoto e poi tornava a scarabocchiare numeri, frecce, simboli greci che danzavano come fossero vivi. E poi c’erano loro: le matrici.
“Vedete ragazzi, il problema degli aerei moderni è che non vogliono volare.” Lo diceva così, come fosse la cosa più ovvia del mondo. Noi annuivamo, ma dentro sentivamo quella fitta sottile del non capire fino in fondo. Il gesso strideva sulla lavagna, lasciando una traccia di equazioni che sembravano truppe in marcia: una geometria rigida di numeri e incognite che, in qualche modo, cercava di spiegare il comportamento degli aerei di nuova generazione.

“La stabilità è un lusso della vecchia scuola,” continuava lui, mentre il cielo fuori dall’aula si incendiava di un tramonto che non avevamo il tempo di guardare. “Gli aerei di una volta erano fatti per volare con ordine, per rispondere ai comandi senza troppi capricci. Ma se vuoi manovrabilità, se vuoi rapidità, devi rinunciare a quella compostezza. Devi accettare l’instabilità. Devi danzare sul filo del caos.”
E lì c’era la rivelazione: gli aerei moderni sono progettati per essere instabili, per non voler stare fermi in un equilibrio confortevole. Si affidano a sistemi di controllo sofisticati, a computer che correggono ogni frazione di secondo le loro turbolenze interne, mantenendoli in volo con una precisione quasi innaturale. Più rischiosi da progettare, certo. Ma infinitamente più capaci di rispondere, di adattarsi, di sfuggire alle inerzie del passato.

Ed è qui che il pensiero si allunga oltre le pareti dell’università, come un’onda che trova nuove rive su cui infrangersi. Non sono forse così anche le imprese moderne? Non stanno forse imparando a vivere sull’orlo dell’instabilità, a rinunciare alla sicurezza statica per guadagnare velocità e agilità?
Le aziende di un tempo erano progettate come i vecchi aerei stabili: solide, prevedibili, capaci di solcare il mercato con la maestosa lentezza di un transatlantico. Strutturate in gerarchie ben definite, costruite su strategie che si muovevano secondo piani quinquennali, forti della loro stabilità. Eppure, oggi, quelle imprese stanno lasciando il posto a un nuovo modello: organizzazioni che non cercano più il comfort dell’equilibrio, ma che si nutrono del movimento, dell’instabilità, della capacità di rispondere ai cambiamenti con la rapidità di un jet da combattimento.

Queste nuove imprese vivono di rischio, come gli aerei instabili: non possono permettersi di rilassarsi, di lasciare il volo alla sola aerodinamica della tradizione. Hanno bisogno di algoritmi, di dati in tempo reale, di una governance elastica che corregga ogni minima deviazione prima che diventi una caduta. Devono accettare il fatto che il loro vantaggio competitivo non sta più nell’essere inattaccabili, ma nell’essere imprendibili.
E allora il parallelo è chiaro: che si parli di volo o di business, il mondo appartiene a chi sa flirtare con l’instabilità, senza lasciarsene divorare.