Ci sono giorni che ti si infilano sotto la pelle e lì restano, annodati per sempre ai battiti del cuore. Sono giorni che non scegli, accadono e basta. Perché qualcuno accende un motore, perché c’è un uomo in rosso che scende in pista, perché hai ancora negli occhi il bambino che eri e non vuoi smettere di ascoltarlo.
Avevo cinquant’anni e una giornata libera. Libera davvero, senza scadenze né telefonate, senza doveri di nessun genere. E ne avevo bisogno, perché questi giorni sono stati un inferno. Un dolore pazzesco, una delusione immensa che mi ha tolto il respiro. Dovevo trovare un modo per andare avanti, per rimettere insieme i pezzi. Così ho deciso. Sono salito in macchina e ho puntato dritto a Fiorano. Con me, un altro bambino cresciutello, il buon Guido, una mano ferma e sicura, armata di fotocamera, ha condiviso l’avventura.

Ho sempre amato la Ferrari con quel trasporto ingenuo che si ha per le cose troppo grandi per essere nostre. Da bambino ritagliavo le foto delle monoposto e le incollavo su un quaderno, poi disegnavo sopra l’asfalto della strada i circuiti del mondiale e li percorrevo con le dita. Non ho mai smesso davvero. Oggi sono qui, in questo angolo di Emilia dove l’aria profuma di benzina e storia, e la SF-25 sta per toccare terra per la prima volta.
Non c’è tempo per dormire, solo per sognare. È questa la frase che mi viene in mente mentre scendo dalla macchina e mi mescolo ai tifosi assiepati lungo il cavalcavia di via Giardini. Fa freddo, ma l’attesa scalda. Quando il motore si accende per la prima volta, l’asfalto sembra restituire il suono ai nostri piedi. Qualcuno trattiene il fiato. Poi, con una carezza impercettibile alla pedaliera, Leclerc si porta fuori dai box e la Ferrari nuova di zecca si allunga sulla pista con la grazia delle cose nate per correre.

Rosso più scuro, bianco che spicca, una sospensione anteriore tutta diversa. Me ne parlano i ragazzi accanto a me, uno con la sciarpa di Maranello e l’altro con un cappellino storto che pare un rito. “Pull rod, come la Red Bull”, dice il primo. “Vedrai come la sfruttano in curva”, aggiunge il secondo. Io annuisco e sorrido. So che sono cambiati cento dettagli, che ogni millimetro della SF-25 è stato pensato per ridurre il tempo, per addomesticare l’aria, per strappare il futuro un respiro prima degli altri. Ma non sono qui per questo. Io sono qui per il suono del motore, per il battito della pista, per l’emozione semplice e nuda di una macchina che inizia a vivere.
Charles chiude il suo stint, la macchina scintilla un attimo sull’asfalto. Qualche giro più tardi è la volta di Hamilton. Ha quarant’anni e gli occhi di un ragazzo che sta per salire sulla giostra più bella del mondo. E quando è il suo turno, quando il casco si abbassa e il piede affonda nell’acceleratore, la SF-25 sembra davvero costruita per lui. Una nuova storia, un nuovo sogno, un’altra corsa contro il tempo.

Restiamo ancora un po’, mentre il cielo si fa più grigio e l’aria profuma di gomma calda. Poi riprendiamo la macchina e ci dirigiamo verso l’osteria di Via Giardini a Formigine, dove il lambrusco, i tortelli e i ravioli profumano di Emilia. È qui che concludiamo la nostra avventura, tra un bicchiere e un piatto che sanno di casa, con il cuore pieno di motori e di vita.

Lo chiamano shakedown, ma per noi è stato un ritorno a casa. Un viaggio dentro un sogno che sa di motori e di infanzia, di curve disegnate col dito e di emozioni che non si piegano al tempo.
Perchè certe giornate non finiscono mai davvero.
Foto di Guido Suardi