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[scritto ascoltando la colonna sonora di “Amelie]

Quando sento parlare o scrivere di cifre da capogiro per la compravendita dei supercalciatori della nostra epoca, mi torna in mente quello che per me è stata la classica partita di pallone.

Partendo dall’assunto di essere stato da sempre uno scarpone (si ricorda una mia unica prestazione stellare ai campi di Piazza d’Armi a Torino dopo aver passato l’esame di Meccanica Razionale), di non aver mai pensato che il pallone utilizzato potesse cambiare le sorti della mia carriera calcistica, ritorno volentieri con la memoria ai tre palloni che per anni sono stati una sorta di feticcio per la mia generazione (e per la precedente).

E non faccio drammi se non posso 
giocare più a pallone
che anche se potessi farlo
comunque non sarei un campione 

[Gatto Panceri – L’Amore va oltre]

Quando la partita doveva essere uno scambio di energia, non supportato da tattiche e schemi di gioco, con l’unica finalità di provare a socializzare (e litigare) allora c’era il Super Tele.

Lo produceva la ditta Mondo di Gallo d’Alba. Sebbene in rete si trovi diffusa la notizia che vuole il Super Tele nato in Italia nel luglio del 1972, pare sia stato prodotto già dal 1967.

Non era in realtà di gomma, ma di una plastica sottile, sottile; leggerissimo (troppo) e di consistenza impalpabile, bastava un tocco e volava via disegnando improbabili traiettorie.

SuperTele

Si faceva più fatica a rincorrere questa parvenza di pallone che l’avversario stesso perché, il SUPER-TELE, non ne voleva proprio sapere di farti intuire dove andava.

Le traiettorie erano disegnate con un generatore di numeri random: impossibile anche per i più bravi capire a priori la direzione. E questo ci faceva sentire dei campioni: fortunosamente calciato in porta, avrebbe probabilmente varcato l’ipotetica linea bianca, a danno del presuntuoso portiere avversario, proiettando direttamente nell’empireo dei grandi del calcio.

E costava poco, ma proprio poco. Mille lire, o poco più.

Il suo difetto? Era necessario giocare in spazi lisci come biliardi, senza alcuna asperità o cespuglio: per forarlo era sufficiente guardarlo intensamente.

A spendere un po’ di più, con un gruppo di compagni di gioco più tecnici e qualificati (almeno uno capace di ripetere nella stessa partita due volte una “veronica”), si poteva investire nel Super Santos, versione dai richiami Carioca. Pare fosse nato infatti agli inizi degli anni ’60, su suggerimento di Stefano Seno, ispirato dalla vittoria del Brasile nei campionati del mondo.

Di colore arancione rossiccio, era percorso da strisce nere che riprendevano – modernizzandolo – lo schema dei vecchi palloni da calcio formati da strisce di cuoio.

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Poi arrivarono i mondiali di Argentina del 1978 e arrivò il nuovo design del TANGO.

Il pallone ad esagoni bianco neri fu mandato in pensione per far posto al rinnovamento dell’Adidas: il famosissimo TANGO. Il nome omaggiava l’Argentina, dove si sarebbero svolti i mondiali in quell’anno ed in ossequio a questa nuova disposizione anche i distributori di palloni e, di conseguenza, i bambini si adeguarono volentieri.

Un bel vedere in ogni caso ed una ventata di novità unita sapientemente ad un’operazione di marketing finemente studiata. I vecchi palloni a “scacchi” venivano relegati in cantine e soffitte perché ormai giocare con il TANGO era diventata una vera e propria moda.

Devo dire che fino al Mundial di Spagna del 1982 non vidi dal vivo un Tango. Unica tangibile presenza era la pubblicità del Corriere dei piccoli.

Ma quando ci giocai la prima volta, capii rapidamente che il calcio non sarebbe stata la mia professione.

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